Intervista – Gabriele Mari, game design e educazione

Gabriele, autore di giochi fra cui Lettere da Whitechapel, Whitehall, Hunt for the Ring e Raccontami una Storia lavora a stretto contatto con Sir Chester Cobblepot, una casa produttrice che si impegna ad avere un alto profilo qualitativo.

 E’ però anche padre, educatore tout court ed educatore “ludico”, dato che si occupa di creare veri giochi educativi per bambini affetti da forme autistiche. Questo bagaglio di competenze ne fa una persona titolata come non molti a vedere i nessi fra giochi ed educazione.

 Questa intervista vuole proprio sviscerare alcuni di questi ponti, sorprendentemente solidi, che si intravedono fra gioco, educazione, formazione e design/progettazione. Proveremo a parlare di filosofia, concezioni e casi. Ci auguriamo di darvi spunti utili

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Partiamo da un’introduzione, Gabriele; raccontaci di te autore, produttore, padre ed educatore.

Ho 44 anni: da 38 sono appassionato di giochi da tavolo, da 20 sono educatore e da 9 sono padre. Scherzi a parte: il mio essere autore (parola che non mi piace molto) deriva da una passione decennale, che si è trasformata negli anni in qualcosa di sempre più professionale. Sono passato dall’essere un semplice giocatore solitario a far parte del mondo associativo, ho fatto il dimostratore in negozi e fiere e poi ho fatto il grande salto nel mondo del lavoro con Stratelibri ai tempi del boom di Magic. Col tramonto della ditta milanese, alla fine degli anni ‘90, mi sono ritrovato quasi per caso a fare l’educatore nel campo del disagio psichico e sociale, e da lì ho scoperto una vera e propria vocazione. Ovviamente la passione per i giochi non è mai scomparsa, anzi è ritornata più forte che mai e mi ha spinto a intraprendere nuove strade: una nuova associazione che poi si è trasformata ne La Ludoteca dei Cacciatori di Teste, il primo game bar d’Italia. È stato questo feedback quotidiano con i giocatori della Ludoteca a far nascere le prime idee che mi hanno permesso di diventare, quasi inconsapevolmente, autore del mio primo gioco, Garibaldi – La Trafila, che proprio quest’anno compie 10 anni. Dai primi passi alla nascita di Sir Chester Cobblepot, la nostra casa produttrice (e non editrice, mi raccomando) il cammino è stato breve e fatto di evoluzioni naturali, in un processo costante di crescita. Come padre, mi ritengo un fortunato “gaming dad”, visto che ho a disposizione in casa un gruppo di playtest completo formato da quattro maschietti che vanno dai 5 ai 9 anni (e ovviamente anche mia moglie non disdegna di contribuire, anzi.) Negli ultimi anni le mie due professioni, educatore e game designer, si stanno sempre più avvicinando, contaminandosi a vicenda: all’inizio ho cercato di tenerle distinte come avrebbe fatto un buon supereroe con la sua identità segreta, ma i punti di contatto sono sempre più evidenti e marcati e quindi mi sono arreso a questa convergenza naturale. Vediamo cosa succederà quando si sovrapporranno del tutto 🙂

 

Ad ora non ho potuto approfondire molto la linea Sir Chester Cobblepot: una cosa che però apprezzo e ammiro della loro politica editoriale è l’accuratezza storico/letteraria. Immagino l’idea nasca dal voler colmare un buco nel mercato, ossia la rarità (nel complesso delle uscite annuali) di giochi in cui l’ambientazione sia determinante e palpabile nell’esperienza stessa. 

Beh, diciamo che prima che da una strategia di mercato, la cosa è dettata dalla passione che ci accomuna per i temi storici e letterari, in particolare quelli che ci riguardano da vicino, geograficamente ed emozionalmente. Forse perché nasco fondamentalmente come un giocatore di ruolo, un gioco per piacermi deve solleticare la mia fantasia, deve farmi vivere una storia, comunicarmi un’emozione, per cui è normale che quando creo un gioco spesso preferisca partire dalle suggestioni di un’ambientazione, da una tematica che mi affascina. Se proprio devo scegliere, mi sento molto più american che german, ludicamente parlando.

 

Proprio l’elemento ambientato mi fa sorgere una domanda; quanto è stringente lavorare su un tema? Non parliamo in questo caso di simulazioni sempre risolvibili con manualoni dadi e carte – restiamo sempre in un ambito eurogame piuttosto essenziale. Dover rispettare dei concetti legati al tema rallenta il processo? Capita di trovarsi arenati su un aspetto che però non si può cassare perché appunto dettato dal tema?

Lavorare su un tema ha contemporaneamente aspetti positivi e aspetti negativi: da un lato è più semplice avere un quadro completo di quello che il design deve andare a riprodurre, ma dall’altro lato ci possono essere aspetti particolari che “rovinano” la coerenza di una meccanica o che sono difficili da integrare. Per non far arenare un progetto su uno di questi scogli, a volte bisogna concedersi delle “licenze poetiche” a scapito della storicità, ma l’importante è essere onesti con i giocatori e non spacciare per vero quello che non lo è. Una delle cose più difficili, almeno all’inizio nella fase di raccolta della documentazione storica o letteraria, è capire e calibrare il giusto livello di “zoom” da adottare: man mano che ti documenti scendi sempre più in profondità e c’è il rischio di essere sommersi dalle minuzie. A volte è importante sapersi fermare, o addirittura fare un passo indietro, scegliendo magari un minore livello di dettaglio ma una maggiore giocabilità, un po’ come un quadro impressionista, in cui i dettagli non sono nitidi ma l’effetto d’insieme restituisce perfettamente la sensazione della scena. Una volta stabilito questo, il riferimento letterario o storico può fungere proprio da guida, facilitando il lavoro: non bisogna inventarsi più nulla, ma solo seguire, e tradurre in linguaggio ludico, quello che le fonti riportano.

 

Un appassionato di eurogame che si interessi di coerenza tematica ha dei nomi di riferimento nel panorama: Vlaada Chvatil, Martin Wallace e Vital Lacerda: cosa pensi del loro approccio e dei loro risultati? (Nota: prendo a riferimento questi autori di eurogame perché il design europeo ha sperimentato di più quanto a meccaniche, laddove concentrandosi sul tema spesso le meccaniche delle produzioni americane sono piuttosto ripetute. Non è dunque un giudizio di valore, quanto più un maggiore avanzamento della sperimentazione nel design tematizzato europeo rispetto a quello statunitense – Ale Friend)

Confesso di non aver mai provato i giochi di Lacerda: anche se alcune sue ambientazioni mi intrigherebbero (The Gallerist su tutte), da quanto ho letto e visto i suoi giochi tendono a essere un po’ troppo pesanti rispetto ai giochi che solitamente amo giocare, con complicati aspetti gestionali che non corrispondono alla mia idea di divertimento. Apprezzo molto di più le opere di un Wallace (che è stato, con la Treefrog, anche un esempio a livello produttivo) o, ancora meglio, di Chvatil: mi stupisco di come, soprattutto il secondo, riesca a spaziare da titoli come Mage Knight a Nome in Codice, passando per Through The Ages e Space Alert. In ogni suo titolo ci vedo un’idea diversa, un nucleo fondante che promette esperienze radicalmente diverse, adatte anche a gruppi di giocatori differenti. Ed essere eclettici, in ogni campo creativo, credo sia molto importante e ammirevole. I regolamenti dei giochi di Chvatil li leggo sempre tutti, immancabilmente (poi giocarli è un altro conto).

 

Il gioco ambientato per come la vedi (sia esso il tuo o opera di terzi) ha una qualche aspirazione “in più”? E’ esercizio di stile nel far aderire meccaniche a tema o prova anche a essere messaggio, comunicazione (laddove didattica è magari un termine troppo forte)? Solo un gioco, ma col tema in più che è sempre benvenuto oppure gioco che prova ad essere qualcos’altro (simulazione, interpretazione…)?

Credo che un gioco ben ambientato non possa essere un semplice esercizio di stile, anzi, è più facile che lo sia un gioco astratto a cui viene appiccicato sopra un tema qualsiasi (come accade in diversi titoli di Knizia): proprio i paletti a cui ti sottoponi per far rientrare la realtà del tema all’interno della meccanica rischiano di compromettere la coerenza cristallina della struttura, creando magari alcune sbavature che servono a rendere il carattere unico dell’ambientazione. Se il gioco è ben fatto la tematica si amalgama alla meccanica a tal punto che non si può togliere quella carrozzeria (l’ambientazione) alla macchina (l meccanica) e sostituirla con un’altra a caso. La comunicazione in più che hai, più che un messaggio, dovrebbe essere un’emozione, uno scarto della fantasia che ti fa dimenticare le meccaniche e ti fa entrare in una storia, ti fa immedesimare in qualcosa o qualcuno: come quando guidi l’auto e ti fai prendere dal piacere della guida, senza pensare “adesso spingo la frizione, cambio marcia, accelero”.

 

Un punto che mi affascina da tempo è la creazione del gioco o il suo uso come serious game; dai molti insegnanti che diffondono i giochi a scuola fino ad un Volko Ruhnke – analista della CIA e autore di giochi come Labyrinth guerra al terrore o i COIN Cuba Libre e Fire in the Lake per GMT. Conoscendo bene un settore è possibile dunque veicolare anche qualche lettura delle cose, non solo prendere una ambientazione come sfondo – proprio come fanno i famosi agenti agenti della CIA addestrandosi con i giochi da tavolo (http://money.cnn.com/2017/03/13/technology/cia-board-games-training/index.html; era peraltro l’idea alla base del Monopoly originario il dimostrare il danno che il capitalismo portava alla distribuzione delle proprietà). Che posizione hai rispetto alla gamification? Dove secondo te può avere particolari potenzialità?

Sono molto affascinato dagli aspetti della gamification e in quest’ultimo periodo sto cercando di documentarmi perché credo molto in un approccio ludico trasversale che abbatta i confini tra chi gioca e chi non gioca: tutti siamo portati a giocare, nei contesti più disparati. Credo che nei campi dell’educazione e della didattica, quindi nelle scuole in primis, una gamification ben fatta potrebbe portare dei risultati inaspettati in termini sia di coinvolgimento degli alunni che di rendimento. Bisogna stare attenti perché ora la gamification va di moda e in molti cercano di farne un business senza averne le competenze, soprattutto a livello di formazione aziendale e gestione del personale: questo non mi interessa, io preferisco chiamarla “ludicizzazione”, in italiano, abbassando il tiro e applicandola alla risoluzione di piccoli problemi quotidiani, educativi e non. Un esempio banale: i miei figli, per decidere i posti a tavola a cena, hanno un mazzo di carte in cui sono riportate tutte le combinazioni possibili: ogni volta se ne estrae una, finché non è finito il mazzo. Prima si perdevano almeno cinque minuti ogni volta per decidere i posti, tra urla e strepiti: ora si divertono al momento dell’estrazione, accettano di buon grado l’esito e  in dieci secondi sono tutti a tavola composti, senza discussioni. Anche questa è gamification.

 

Scendiamo ora nell’ambito delle tue specifiche attività: hai scritto un libretto – “TUTTINGIOCO. Il gioco strutturato come strumento educativo” in cui racconti un po’ come usi il gioco nella tua attività educativa con i bambini autistici. Spiegaci, anche per chi non ha letto il libretto, cosa pensi del gioco in questo ambito. 

Il gioco da tavolo, in quanto gioco altamente strutturato, può essere utilizzato come un potente strumento educativo. Io lo adopero soprattutto nell’ambito dell’autismo, poiché è il mio principale campo di specializzazione, ma in realtà, con i dovuti accorgimenti, può essere usato in tutti i contesti educativi, anche con bambini e ragazzi a sviluppo tipico. Il gioco è un sistema di regole che i giocatori devono conoscere e rispettare, per poter competere, divertirsi e vincere: penso non ci sia bisogno di sottolineare quanto sia importante nel campo dell’educazione il concetto di regola. Come seconda caratteristica, il gioco si presta benissimo a diventare una palestra per la mente, in cui sperimentare qualsiasi tipo di competenza e abilità senza rischiare nessun tipo di conseguenza (se non perdere la partita, ma anche quella di imparare a perdere è una bella lezione da imparare), oltre a essere un ottimo veicolo per nozioni e conoscenze. Non meno importante è il fattore aggregativo: in un’epoca sempre più invasa da schermi di ogni tipo e dimensione, riscoprire il valore apparentemente anacronistico di confrontarsi con un gruppo di propri simili attorno a un tavolo, guardandosi in faccia e interagendo direttamente è un potentissimo rimedio alla progressiva ed inesorabile zombificazione dei giovani (purtroppo i programmi di disintossicazione da schermo saranno sempre più di attualità, e sono convinto che il gioco da tavolo possa essere un’ottima terapia).

 

Ci  sono dei punti del libretto che mi hanno davvero colpito: il primo è il fatto che getti un ponte tra game design, sviluppo del gioco e attività formativa col bambino. Mi spiego per chi non conosce il libro; se un gioco prevede di lanciare un dado noi sappiamo intuitivamente gestire questa meccanica. Un affetto da autismo può non avere quello standard – per cui potrebbe essere naturale per lui considerare una delle facce laterali del dado. Il game designer, così come il formatore/educatore progetta delle attività immaginando certi sviluppi e direzioni. Le distorsioni che ognuno può applicare possono portare la strada in tutt’altra direzione fino a inficiare tutto il lavoro. Progettare una attività e curarne una forma che sia non ambigua e il meno deviabile possibile è un ponte tra Educazione, Formazione e Game Design?

Il ponte in realtà può estendersi anche oltre l’educazione e il game design, andando a toccare il design tout court (in cui si parla di usabilità, ovvero quanto è facile, soddisfacente ed efficace interagire con un oggetto), la psicologia (che usa il concetto di affordance per indicare le qualità di un oggetto che ne suggeriscono automaticamente l’uso), l’informatica (in cui si usa il termine accessibilità per determinare la facilità e autonomia di utilizzo di un dispositivo da parte di un qualsiasi utente). Ma anche competenze più terra terra, come il famigerato buonsenso (che in realtà varia da persona a persona e va quindi testato anch’esso ogni volta) o la conoscenza delle differenze culturali. Un esempio classico che riferisco spesso a proposito di Whitechapel è che il regolamento iniziale veniva interpretato in maniera diversa in Germania e in Italia: in Germania una cosa che non era scritta nel regolamento non si poteva fare; in Italia una cosa, se il regolamento non la vietava esplicitamente, era permessa. La “cosa” in questione era: i giocatori che hanno il ruolo di poliziotti possono parlare tra di loro. I tedeschi non lo facevano perché non era esplicitamente scritto; gli italiani lo facevano perché non era esplicitamente vietato. Differenze culturali (e “buonsensi” diversi) che, a ben guardare, dicono cose di noi e dei tedeschi che vanno ben al di là del tavolo da gioco.

 

Un altro punto illuminante per me è stato il: potremmo essere tutti un po’ autistici, in qualcosa. Un po’ fissati su certi punti saldi, ripetitivi a livello comportamentale o totalmente spaesati davanti a realtà estranee; quello che noi facciamo in certi ambiti può essere esattamente ciò che noteremmo (accentuato) in un soggetto autistico. Siamo così sicuri di essere diversi?

Io lo dico sempre: più sto con gli autistici e più scopro di essere autistico anch’io. Per lo psicologo Simon Baron-Cohen l’autismo potrebbe essere inteso come un estremizzazione del cervello maschile: mentre quello femminile predilige il lato empatico delle cose, il cervello maschile è organizzato per lo sviluppo e la comprensione di sistemi, ovvero oggetti o fenomeni che seguono determinate regole, leggi causali chiaramente definite. Un gioco da tavolo è un esempio perfetto di sistema, e infatti statisticamente piace più agli uomini che alle donne (non solo per questo, ovviamente). Il mio sentirmi autistico è naturalmente un’esagerazione, ma più lo si conosce più ci si rende conto di come certi aspetti di noi siano riconducibili a tratti che possono definirsi autistici: in fondo l’autismo non è un interruttore acceso/spento, ma è un continuum che parte dallo stato che volgarmente definiamo di “normalità” (qualunque cosa voglia dire) fino ad arrivare alle forme di maggior compromissione. Ma è soprattutto sperimentando i metodi di trattamento, in particolare il metodo TEACCH (che promuove una miglior organizzazione del tempo e dello spazio), che ti rendi conto di quanto questi metodi funzionino non solo sulle persone affette da autismo, ma anche su di te: il cervello funziona sempre nello stesso modo, siamo solo su gradini diversi dello stesso continuum.

(qua preferisco tacere sulle nostre compulsioni e distorsioni da gamer: giochi imbustati e plastificati, religiosità ai materiali, ossessione per i divisori interni e l’organizzazione dei componenti; ma siamo sicuri sicuri di essere noi quelli normali? 😀 Nd AleFriend)

 

Ogni persona ha i suoi filtri e le sue distorsioni cognitive. Capirle, prevenirle e guidare così l’altro ad un uso efficace delle proprie capacità è forse un gesto di empatia? Personalmente, lo dico apertamente, sento di sì.

I metodi comportamentali che si usano con l’autismo sono spesso stati criticati paragonandoli all’addestramento dei cani, ponendo l’accento critico sulla meccanicità dell’insegnamento e sulla perdita del rapporto umano. In realtà, in una relazione d’aiuto, qualsiasi sia il quadro teorico di riferimento, non può non crearsi un rapporto empatico. Se per empatia intendiamo la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui è vero che non sempre è facile riuscirci, soprattutto in situazioni come quella dell’autismo in cui la manifestazione delle emozioni può essere gravemente compromessa. A volte siamo un po’ degli investigatori, si cerca di capire lo stato d’animo dell’altro da piccoli e all’apparenza insignificanti indizi: un movimento della mano, uno sguardo, una smorfia. È un continuo cercare di mettersi nei panni dell’altro, per quanto difficile possa essere. E questo non vale solo per l’educatore, in effetti, ma dovrebbe valere anche per il game designer.

 

In comunicazione c’è un concetto, il “metamodello”. Avendo ogni persona un modello del mondo, metamodello è uscire dal proprio per capire quello dell’altro, assicurandosi che un messaggio non stia ricevendo distorsioni. E’ metamodello chiedere a uno studente di rispiegare un concetto, o soprattutto chiedere specifiche e portare a galla sottintesi:

Questo tuo comportamento non è corretto/normale(sottintesi: hai sbagliato qualcosa e il giusto sarebbe stato altro, che non viene esplicitato)

a quale comportamento ti riferisci? Cosa sarebbe normale per te in questo contesto?(lo scopo è portare a galla il sottinteso, per capire ad esempio cosa esattamente deluda o faccia arrabbiare l’altra persona: senza questo step si resterebbe a discutere per ore di concetti che hanno una diversa traduzione pratica per ogni individuo)

Se masticate un pizzico di psicologia capite quanto sia cruciale e vitale questo passaggio nella comunicazione e nelle relazioni, perché apre alla possibilità di conoscere il modello altrui, i suoi valori, le sue priorità, e dunque le sue scelte comportamentali. Trattandosi di due attività in cui si mette da parte il proprio modello di pensiero per osservare, testare, capire quello altrui, possiamo dire che il playtesting è il metamodello dell’autore di giochi? Il designer deve abbandonare ciò che per lui è standard e scontato e verificare se un totale estraneo ha tutti gli strumenti che gli servono per imparare a muoversi. Questo abbraccia la stesura del regolamento, che deve essere chiaro e efficace da seguire laddove l’autore potrebbe portare molti sottintesi, l’ergonomia dei materiali, che possono avere incastri sagomati, illustrazioni e colori che si richiamano e ancora l’iconografia ben sviluppata nel settore del gestionale, genere che il più delle volte a parte il regolamento è indipendente dalla lingua, rappresentando un po’ un linguaggio e un modello universalizzabile. Educatore, Formatore, Designer e Comunicatore devono fare di tutto perché il contenuto venga ricevuto da tutte le fasce e senza distorsioni. Nel tuo caso anzi, come racconti nel libro, anche la realizzazione materiale deve tenere conto delle capacità cognitive e sensomotorie degli utenti finali.

È esattamente così. Il playtest non riguarda soltanto il funzionamento delle meccaniche, ma deve estendersi a tutti gli aspetti del gioco, perché essendo un sistema (ritorniamo a Baron-Cohen) ogni sua caratteristica potrebbe influire sulle altre. Dalla comprensibilità del regolamento alla grafica dei materiali di gioco, dal colore delle tessere alla maneggevolezza delle pedine, tutto andrebbe testato sul tavolo di gioco. Dico dovrebbe perché pochissime case editrici lo fanno: è un lavoraccio, lungo, noioso e dispendioso. Ma che alla lunga paga, perché poi i giochi che escono da questo processo sono solidi come rocce e durano nel tempo. Per questo i prototipi che realizziamo con Sir Chester Cobblepot hanno l’aspetto di giochi finiti in tutto e per tutto: per dare ai playtester un’esperienza quanto più vicina possibile a quella dei futuri fruitori finali.

 

Ma allora, se progetta attività emozionanti e memorabili sulla sensibilità individuale, il game designer è un umanista? A me sembra proprio di sì, se non si vuole parlare addirittura di artista.

Non avevo mai considerato questo punto di vista. Dipende da cosa si intende per umanista… Di sicuro, per fare un buon lavoro di game design, ci si deve mettere nei panni dell’altro, considerando e valutando capacità umane (la razionalità per prima) nella maniera più universale possibile, quindi in questo senso sì, l’autore deve porsi in un atteggiamento che possiamo anche chiamare “umanista”. L’arte invece non la scomoderei, troppo spesso il termine “artista” è usato a sproposito: rivaluterei invece i termini “creativo” e “artigiano”, che si avvicinano molto di più alla concreta quotidianità di un game designer. Spesso, anche in campo educativo, è un ruolo che io accosto a quello del sarto: prendere misure, creare modelli, imbastire vestiti, provarli, modificarli…

 

Dici di non scomodare l’arte ma parlare di creatività e artigianato. Come inquadri allora alcuni titoli che a partita compiuta fanno brillare gli occhi e gonfiano di emozioni il giocatore che ne parla? (Penso a titoli epici, dai due di Vlaada alle avventure di maggiore atmosfera come Sherlock Holmes Consulente Investigativo o il tuo stesso Whitechapel, Specie Dominanti, magari un Guerra dell’Anello e chissà quali altri per ciascuno di noi.)

Beh ho visto brillare occhi e sentito discorsi infervorati anche per giochi decisamente mediocri e pompati dall’hype, dal trend del momento o dal gusto personale. E’ una questione interessante e complessa: cosa si può definire opera d’arte e cosa onesta opera d’ingegno? Cosa demarca la differenza? Sarà che sono abituato a parlare di arte solo per pittura e scultura, faccio fatica ad inquadrare i parametri per distinguere un buon libro o un ottimo film da un’opera d’arte…
Esiste sufficiente letteratura sui giochi da tavolo che codifichi un serio apparato critico in grado di discernere dei parametri universali? Chi decide che un tal gioco è un’opera d’arte? Quali giochi, secondo te, possono essere annoverati in maniera incontrovertibile tra le opere d’arte? E’ un discorso molto interessante che meriterebbe uno sviluppo…

(Ale Friend: butto là uno spunto – fumetto e cinema non sono assurti a forme d’arte dopo che l’intera bibliografia è stata stesa, la tassonomia alla Linneo arriva dopo il riconoscimento di un’area di interesse perché essa viene talmente sostenuta a livello sociale e popolare da diventare non più ignorabile. Naturalmente i critici autorevoli contribuiscono a istituzionalizzare un ambito di interesse, ma prima di questo step ci sono i semplici appassionati che si dedicano a studiare qualcosa che li appassioni. Così è stato con cinema e fumetto, così Huizinga e Caillois che hanno studiato il gioco; chi avrebbe mai preso sul serio i giochi in accademia visto che non c’era bibliografia?)

 

Lavorando tu anche con adulti normodotati, riscontri scenari simili o differenti sul rapporto fra gioco, apprendimento e fruizione? Di nuovo, il fatto che il gioco offra sia una motivazione intrinseca ed entusiasmante sia un continuo rapporto col feedback (correggere il tiro in corso d’opera in base ai riscontri in tempo reale) lo rende uno strumento di potenzialità fenomenali che a mio avviso potrebbe essere sfruttato molto di più.

Come accennavo prima, il rapporto tra gioco, apprendimento e fruizione rimane lo stesso in qualsiasi contesto, siamo solo su livelli di capacità differenti. Il gioco da tavolo, con la sua strutturazione, è uno strumento potentissimo e di una versatilità incredibile, con possibili applicazioni in qualsiasi campo in cui siano coinvolte facoltà mentali e sociali.  Quindi sì, è assolutamente poco sfruttato, più che altro per ignoranza, perché non si conoscono i meccanismi che ne stanno alla base e perché, soprattutto in Italia, la cultura del gioco è ancora molto indietro, siamo fermi ai soliti Monopoli e Risiko che da cinquant’anni occupano gli scaffali dei supermercati. Dobbiamo favorire un mutamento di prospettiva, e io lavoro in questo senso da tanti anni, ma è un processo lento e graduale, quasi un porta a porta. Negli ultimi anni ci sono stati dei bei segnali di crescita di consapevolezza, sono molto fiducioso. Bisogna continuare a lavorare a testa bassa, coltivando il proprio orticello intorno a casa, zappettando metro per metro, prendendosi cura delle piante più piccole. I frutti arriveranno.

 

Lasciamo ora la filosofia. Quell’insieme di soft skill di cui abbiamo parlato prima è abbastanza quotato tra le competenze chiave per il mercato del futuro. Quali sono a tuo avviso le lezioni per il mondo reale e professionale che l’attività educativa e di game design possono dare a una persona qualunque?

Abbiamo già detto di come il gioco sia uno strumento educativo, e, come ogni strumento, bisogna sapere come usarlo e, soprattutto, bisogna conoscere il motivo per cui lo si sta usando, ovvero gli obiettivi che ci si pone attraverso il suo utilizzo. Un bravo educatore ludico, sapendo questo, può insegnare qualsiasi “lezione”, se si pone i giusti obiettivi. Le più macroscopiche lezioni ruotano sempre intorno ai tre pilastri a cui ho accennato prima: 1) il rispetto delle regole: che tu sia a scuola, in azienda o in carcere, devi sapere che tutto funziona secondo delle regole note, e che per muoversi all’interno di queste strutture sociali devi “giocare” secondo queste regole; 2) il gioco come palestra, come luogo protetto in cui imparare cose, nozioni, comportamenti, modelli di ragionamento e di problem solving; 3) l’aggregazione, l’interazione con gli altri, il confronto e il dialogo, la negoziazione, la cooperazione o la competizione regolata, la conoscenza reciproca, il team building e tutto quello che consegue dall’agire in un gruppo. Mi sembra che già con questi tre punti ci sia molta carne al fuoco…

 

Vuoi infine aggiungere dei punti o delle considerazioni che non abbiamo ancora toccato? Va’ pure a ruota libera.

Faccio una “metaconsiderazione”: questa è una delle più belle interviste a cui mi sia capitato di rispondere, perché va proprio nella direzione di consapevolezza e cultura del gioco a cui accennavo prima. Al di là del “i tuoi giochi preferiti” o “raccontaci com’è nato il tal titolo”, che lasciano un po’ il tempo che trovano, trovo molto più stimolante, per me ma soprattutto per i lettori (almeno spero), il fatto di ragionare di giochi in maniera trasversale, proprio perché il gioco da tavolo può e deve essere qualcosa di più di un hobby che ti spinge a comprare compulsivamente solo l’ultimo titolo di cui tutti parlano su internet: il gioco deve essere un’attitudine, uno stato mentale, un approccio “ludicizzante” che ti permette di vedere in maniera differente le cose di ogni giorno. Il gioco non è solo nei forum di hard gamers, nei negozi specializzati, nelle fiere di settore: il gioco è potenzialmente ovunque. E se non c’è, bisogna portarcelo.

 

*_*  A parte scherzi, approfondendo il mondo del gioco e osservando i comportamenti che ruotano intorno ad esso è stato naturale notare queste corrispondenze per me. Sono parte integrante del mio approccio e pilastro della mia “vocazione” a dedicarmi al gioco come poi faccio in questo blog. Ed è solo che un grande fertilizzante riuscire a confrontarmi su questa trasversalità capace, forse, di arricchirci anche molto di più della singola recensione o reportage di partita.

Ringrazio pubblicamente Gabriele non solo di essersi prestato, ma anche di aver sviluppato il discorso in modo molto ampio e sentito, con tantissimi spunti per me davvero interessanti. E’ quello che voglio poter offrire alla community di Le Parti e il Tutto. – nd Ale Friend

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